26.2.13

Obiettivo Italia

DUE CONSIDERAZIONI SUL voto. Guardavo i risultati (parziali) del voto degli italiani all'estero (1.311 sezioni scrutinate su 1.467): centrosinistra 30 per cento, Monti 20 per cento, centrodestra 16 per cento, Movimento 5 stelle 10 per cento. L'Italia che credevo di abitare in realtà vive all'estero.

Seconda osservazione: la dipendenza dai mercati internazionali, che è il tema dell'economia e il più grande limite di Mario Monti, che da tecnico vorrebbe trasformarsi in statista ma rimane schiacciato dal timore dell'economia, che secondo lui riassume, inizia a conclude tutto. Monti si preoccupa (fa eco anche la stampa italiana) per il risultato elettorale nemico della stabilità che può fare danni perché "viviamo in un sistema economico e finanziario internazionale integrato, i mercati non vanno spaventati".

Certo, tutto vero. Però non finisce tutto nell'economia: ci sono anche altre cose. Ridurre tutto alla visione economica significa esserne schiavi, con un determinismo quasi marxiano, alquanto singolare per Monti.

E per di più, mi viene da aggiungere, una situazione di instabilità e confusione non è necessariamente negativa per i mercati. Se da un lato serve "sicurezza" per operare senza interruzioni, è anche vero (come sta tragicamente dimostrando la vicenda Finmeccanica senza che nessuno gli venga neanche in mente di preoccuparsene, soprattutto Monti che - guardando solo all'economia e non agli interessi nazionali - è decisamente "unfit to rule" perché non sta tutelando un gruppo strategico del sistema Italia di cui è per di più azionista di maggioranza) dicevo: è anche vero che durante le crisi si fanno i migliori affari. Non ci lamentiamo dell'incertezza dal punto di vista economico, perché temo sia altro di cui ci dovremmo preoccupare.

24.2.13

Dichiarazione di voto

NON HO CAPITO perché ma un po' di gente sta dichiarando apertamente per chi vota. Beh, io no. Perché il voto è segreto e non vedo perché il prossimo debba sapere chi voto (visto che non milito in un partito). E comunque, lo trovo anche un modo scorretto per fare propaganda elettorale, se a dirlo sono giornalisti/blogger.

Now that's editing!

È DOMENICA, UNA domenica elettorale in Italia. Ed è anche il momento di Garry B. Trudeau e del suo Doonesbury. Alle prese con le succose vicende editoriali del suo personaggio (giovane) più sfasciato di tutti. Che bello... Questo fumetto è magico! 





23.2.13

Evolution of Mom Dancing

LA FIRST LADY americana promuove la campagna contro l'obesità e va in televisione a ballare da Jimmy Fallon. Sta diventando un virale-totale.

 

20.2.13

Tempus fugit

QUI LE GIORNATE volano via. Mi piace commentare quel che succede nel mondo ma non ne ho mai tempo, probabilmente mi manca la prontezza.

Stamattina sono stato con Paolo Ottolina del Corriere a fare una chiacchierata con gli studenti del liceo artistico Giovanni XXIII qui di Milano. Bella mattinata, fa piacere. Si parlava di "parole" che poi sono il business di noi giornalisti, e che tante volte ce ne dimentichiamo.

Oggi è anche il giorno che viene presentata la Playstation 4: non ho molta confidenza con le prime tre (sono stato prima Sega, poi Nintendo e adesso Xbox) ma vediamo cosa si inventano gli ingegneri e gli esperti di Kaze Hirai, che peraltro avevo intervistato qualche anno fa.

Infine, Oscar Giannino. Al di là di tutto: millantare un inesistente master in America è grave e mostra tendenze poco piacevoli della persona, se non altro dal punto di vista del narcisismo. Ma dichiarare ben due lauree (economia e commercio e poi giurisprudenza) confina con il penale. In alcuni casi, se lo si dice a un pubblico ufficiale, è proprio un reato: "Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri", art. 495 CP. Senza contare che la laurea produce effetti giuridici, e quindi si rischia (se la si sfrutta millantandola, e non per semplice vanto) anche l'articolo 494 ("Sostituzione di persona") e altre fattispecie che sicuramente qualcuno laureato in giurisprudenza (io ho fatto Scienze Politiche) potrebbero indicare meglio di me.

Che settimana. E siamo sopravvissuti alle dimissioni del Papa e alla pioggia di meteoriti in Russia che sembrava l'Armageddon versione low budget.

17.2.13

Think, man!

DOMENICA ELETTORALE ANCHE negli Usa, a quanto pare. Con Garry B. Trudeau e il suo Doonesbury "Next Generation".


15.2.13

Meteoriti

IN QUESTE ORE, con il senso perturbante di un evento millenario come le dimissioni di un Papa e la quasi immediatamente successiva pioggia di meteoriti, c'è aria di Giacobbo. Le peggiori superstizioni dell'essere umano si riaffacciano, le ansie (cioè le paure senza che ci sia qualcosa di cui aver paura) vengono a bussare con una certa insistenza. La superstizione dilaga.

Le cose non sempre sono come sembrano e soprattutto gli effetti non sono tanto scontati. Anzi, dipendono più dal contesto che non dalla cosa di per sé. Ad esempio, chi avesse letto il libro di Cathryn J. Prince, A Professor, a President and a Meteor: The Birth of American Science, avrebbe ascoltato una storia totalmente opposta dai sentimenti generati dalla pioggia di meteoriti di oggi in Russia.

Alle sei e trenta del mattino del 14 dicembre del 1807 cadde nel New England il cosiddetto "Meteorite Weston" dal nome dell'area in cui impattò con il suolo. Era la prima volta che veniva registrata la caduta di un corpo extra-terrestre sul territorio degli Stati Uniti, e venne registrata con una certa attenzione. L'America dell'epoca era una società piuttosto semplice, Protestante ed evangelica, totalmente centrata sulla lettura della Bibbia. L'effetto del meteorite fu incendiare la mente di molti e far nascere l'attenzione verso la scienza.

Lo "spirito scientifico", che è una delle anime fondanti gli Stati Uniti (oltre alla religiosità, che è potente in quella nazione, e al culto liberista del denaro), nacque più o meno con quelle strisce che rigarono il cielo e quell'esplosione che devastò l'aria. Sorprendente no? Proprio l'opposto di quello che fa la società odierna guidata dalla scienza.

La storia di quel meteorite e delle sue conseguenze è un racconto piuttosto piacevole, per chi è appassionato di Americana e di saggistica a sfondo scientifico. Se interessa, il libro si trova su Amazon.it in versione Kindle a meno di sette euro. Non male no?

Django Unchained (2012)

A UN CERTO punto, diciamo poco dopo la metà, diventa lento, lungo e anche un po' noioso. All'inizio pensavo fosse un mio problema: di solito resisto male all'accumulo di tensione e i film con passaggi angoscianti (quelli che i bambini non riescono a capire: quando tu sai qualcosa che il protagonista non sa che sta per succedere, tipo Janet Leigh sotto la doccia di Psycho) mi snervano e mi stancano parecchio. Invece, non era un problema mio, era un problema di Quentin Tarantino.

Rassicurato su questo aspetto, Django Unchained, il kolossal-spaghetti-western con tante di quelle citazioni e omaggi da far imbarazzare uno studente di Cinema, televisione e nuovi media dello IULM, è purtuttavia un bel film. C'è pathos, c'è una storia ben raccontata, c'è soprattutto quella ricchezza di personaggi e consistenza degli oggetti e degli effetti che fanno sembrare la materia dei sogni che chiamiamo cinema un po' più reale. Non è male, dopo quasi un secolo di manipolazione onirica.

Il film è lungo, l'investimento di tempo che richiede però è compensato - con l'eccezione di quei venti minuti pallosissimi e claustrofobici nella sala da pranzo di Mr. Candy - dalla vivacità della trama e dalla bellezza quasi bolscioviana delle sparatorie. C'è del Tex Willer oltre che del Franco Nero. E c'è tanta voglia di tornare a un'innocenza perduta da tempo nella gratuità di quel che accade. Talmente tanta da far ammalare di nostalgia anche il branco del Ku Klux Klan che discorre con fare melbrooksiano sulla qualità ed ergonomia dei cappucci (peraltro fatti in casa) da usare per i linciaggi.

Quando avanza tempo, magari me lo rivedo. Django per sua stessa ammissione è la storia di Sigfrido che vuole liberare Brunilde e che affronta draghi e mostri dentro e fuori da se stesso perché non ne ha paura. Django non ha paura. Non ha mai paura. Casomai soffre, quasi piange, per empatia. Ma non trema e non teme. La sua è la storia di un eroe wagneriano nero nell'America pre-guerra civile e schiavista. Ci pensate? Una favola, altroché.

12.2.13

La foto di spalle del Papa

A PRESCINDERE DALL'OPINIONE che uno ne ha (ma poi è obbligatorio averne un'opinione?), c'è una cosa di cui come giornalista mi sto vergognando molto. Non è soltanto il numero imbarazzante di articoli e titoli tra il sarcastico e il sardonico sulla rinuncia del Papa (ma se uno è ateo non è che deve essere necessariamente anticlericale, no?), c'è anche il fatto delle foto. Tutte di spalle. Madonna mia!

Perché, cercate di capirmi: non tutti fanno i blogger nella vita. Ci sono anche quelli che fanno i giornalisti, che hanno professionalità e sanno quel che fanno (poi ci licenzieranno tutti a vagonate, ma ce la siamo cercata direi: grazie sindacato! grazie contratto di lavoro blindato!) e che indulgono in piacevoli tentazioni. Come le foto del Papa di spalle, di tre quarti, in eclisse. Perché? Voglio dire: è una notizia o un commento, un trito luogo comune? E cosa informa? Guardatevi questa bella galleria di luoghi comuni: quanti sono apertamente anticlericali (non solo da noi: anche all'estero). E soprattutto, perché? Per laicità modernista? Ricordiamoci che il disincanto mangia dal dentro il cuore in cui va a vivere. Non me ne frega niente di difendere il Papa, soprattutto questo Papa. Ma si comincia ad esagerare.

11.2.13

We have met the enemy. And he is us

OGNI TANTO VALE la pena ricordare questa vignetta di Pogo, di Walt Kelly. Anche quando non è l'Earth Day.


10.2.13

Is That...?

DOONESBURY DI GARRY B. Trudeau questa domenica si pone una domanda: ce l'avrebbe detto se fosse incinta, no? No?


6.2.13

Cloud Atlas (2012)

VISTO. DEVO DIRE che mi è piaciuto? Sì, lo posso fare senza grandi problemi. Visivamente è un gran bel film, gli incastri sono il suo bello e se non diventa soverchiante il bisogno di capire a tutti i costi le diverse maschere di tutti gli attori, può anche essere letto al di fuori della cornice permutativa voluta dagli autori.

Cloud Atlas è un film tedesco (!) ma dei fratelli Lana and Andy Wachowski, tratto da un romanzo del 2004 di David Mitchell. Meglio di Matrix? Tutta un'altra cosa. Comprime però la complessità combinatoria della trama - uno dei temi ossessivi dei Wachowski è quello della libertà e del libero arbitrio - in un unico episodio anziché in tre. La densità poi si paga in termini di tempo e di complessità del racconto. 

Il film ha un substrato culturale che è facile da identificare (ATTENZIONE SOLITO SPOIL) perché è in realtà il buddismo. Nel senso che: la gente si reincarna, si reincarna a gruppi (si ritrovano e continuano ad interagire in vite successive), ha libertà di scegliere il suo destino, le conseguenze delle scelte fatte in una vita si riflettono in quelle successive, la logica vincente è quella della compassione per gli altri. Insomma, karma, samsara e tutto il resto, a parte il Nirvana. Non è neanche troppo new age: potrebbe benissimo essere stato fatto da Bernardo Bertolucci.

Non ho letto il romanzo di Cloud Atlas (ce l'ho in inglese ma mi fa un po' di fatica), non voglio entrare nel dettaglio delle storie che si intrecciano in sei piani temporali diversi e del "montaggio" che costituisce poi l'unico momento di novità formale e visiva. Voglio solo dire che è uno di quei film in cui si può scegliere di non capire niente e va bene lo stesso, perché tutto sommato le macrotrame alla fine vengono fuori abbastanza chiaramente: ci sono delle "missioni" per ciascuno e ciascun viaggio alla fine arriva a compimento. 

Si può anche scegliere di seguire la complessità degli intrecci che si sovrappongono tra loro durante tutta la pellicola e arrivare a una buona comprensione alla fine del film del piano "esoterico" (che viene peraltro mostrato in maniera piuttosto chiara, soprattutto con la logica che le storie più vecchie sono fondative dei tratti che dovranno essere cambianti e quelle più recenti sono di redenzione/condanna di quei tratti). 

Si può infine sposare il desiderio di seguire tutte le differenti stratificazioni di storie e di travestimenti, con alcuni personaggi che sono meno visibili in alcuni archi di storia (una specie di Where in the world is...) e godere di questo aspetto più ludico. Ideale per rivedere il film almeno trenta volte: anziché giocare sulle citazioni, giochiamo sulle identificazioni ma il concetto è analogo. 

Ci saranno poi quelli che fonderanno sette e religioni, che cominceranno a ragionare di vite passate e future, di destini e di colonie extramondo (come quelle di Blade Runner: ce ne sono almeno quattro e alla fine del film una la intravediamo). Sono cose che succedono: i fratelli Wachowski hanno dalla loro questa facolta mitopoieutica che permette loro di creare una mitologia basata su alcuni punti forti, come la presenza della nemesi, del male incarnato, sotto forma di Hugo Weaving, attore australiano che è un punto di riferimento anche per Peter Jackson e i suoi lavori tolkeniani.

In definitiva Cloud Atlas è un bel film, si fa guardare, dura tantissimo (due ore e mezzo!) e ha dei momenti visivi molto belli: quelli ambientati nel Pacifico dell'800 sono straordinari e aggiungono profondità e ricchezza all'idea dei piani temporali separati e convergenti.

4.2.13

Tre film sulle dipendenze, di cui due con aerei e uno tutto su New York negli anni Ottanta (mitici!)


HO VISTO UN po' di film in questo periodo, come dicevo poco avanti. Uno di questi è Flight (2012), di Robert Zemeckis. È un film sulla lotta di un pilota di linea contro la dipendenza dall'alcol e dalla cocaina. È più in generale un film sulla dipendenza, e per me fa un trittico con altri due film: Up in the Air (2009), di Jason Reitman, e Bright Lights, Big City (1988) di James Bridges.

Sono tre film che hanno poche cose in comune, apparentemente (ok, due sono legati al mondo dell'aviazione civile, ma non quello con Michael J. Fox degli anni Ottanta), ma seguono percorsi simili. Sono tre storie di condanna e di redenzione, raggiunta o mancata. In ogni caso, insegnano tutti e tre che c'è un prezzo da pagare, e che quando sembra che non ci sia niente da pagare, è perché tocca a qualcun altro. O perché toccherà a noi più avanti.

Adesso scriverò delle cose su Flight che solitamente non scriverei su di un film: anticiperò il finale in maniera piuttosto esplicita. Quello che nella buona società digitale si chiama "fare spoiling". Quindi fate i bravi e non andatevi a leggere tutto per non bruciarvi questo che comincia come un "disaster movie" piuttosto costoso, con una specie di MD-80 battezzato JR-88 (!) che viene volato a testa in giù e che ritrae i piloti come capaci di prodezze anche da ubriachi e intossicati: cosa molto improbabile, si perde il posto di lavoro per un bicchiere di vino otto ore prima, e il resto dell'equipaggio se ti vede alterato negli Usa (ma anche in Europa) non ti fa neanche arrivare nella cabina di pilotaggio.

Gli aerei di linea contemporanei non volano a testa in giù: non sono progettati per farlo e non riuscirebbero a mantenere l'assetto per più di una manciata di secondi. Chi l'ha fatto (c'è un incidente mortale della Alaska Airlines piuttosto famoso al riguardo: il volo 261, ma soprattutto un mitico volo dimostrativo del Boeing 707) c'è riuscito per una serie di fattori concomitanti tra cui la brevità della tratta "invertita".



Avete avuto tempo di pensare se volevate cambiare post oppure vi sta bene andare avanti qui. Quindi ve lo scrivo. La storia di Flight è una storia di redenzione. Denzel Washington, che qui si gioca l'Oscar di nuovo e pure il Golden Globe, impersona alla grande la figura tragica e drammatica, ma anche grandiosa del capitano Whip Whitaker (cioè da noi Comandante Whip Whitaker, ma ci siamo capiti), che alla fine ammette nel modo più spettacolare di essere alcolizzati, si assume le sue responsabilità, finisce in galera per sentirsi per la prima volta libero e riceve anche la visita del figlio cresciutello che vuole aprire un nuovo capitolo e dialogo con lui. Un film faticoso psicologicamente - due ore e mezzo che ti viene voglia di correre fuori a chiedere aiuto dall'oppressione psicologica di certi passaggi - ma liberatorio. Tutto l'opposto di Up in the Air, dove la dipendenza, l'ossessione, ma anche lo straniamento - fattore implicito e remoto in Flight ma esplicito e attore protagonista della storia in Up in the Air accanto a George Clooney - gioca un ruolo centrale.

Ryan Bingham (George Clooney) che nella vita gira gli Usa per aiutare le corporation a licenziare i dipendenti in eccesso causa crisi, che nel tempo libero tiene corsi su come alleggerirsi e liberarsi da tutto, oggetti e relazioni (usando la metafora dello zainetto da vuotare) e che vive relazioni affettive da adolescente, incapace di uscire dal suo guscio, condannato a vivere in camera da hotel, con auto a noleggio e punti mille-miglia accumulati all'inverosimile per quel traguardo del milione di punti di cui non si ricorda neanche più il motivo, è in cerca di redenzione. Ma è una redenzione parziale, quasi un testamento a fronte di una condanna ineluttabile: Bingham regala tutto agli altri (le miglia alla sorella, il cuore alla stronza con famiglia che lo ha ingannato, la raccomandazione alla giovane collega che voleva farlo licenziare e che invece salta per aria al posto suo perdendo il lavoro) e a lui non resta niente se non di scomparire in maniera quasi romantica in un infinito presente in cui viaggiare è comunque bello. Su nel cielo, Up in the Air, vuol dire perdersi per sempre nella nebbia delle nuvole e non tornare più indietro. Una sorta di suicidio rituale, un modo per scomparire.

Tra queste due visioni, una che prevede la redenzione ma al costo del cambiamento, della conversione, e l'altra che invece porta alla condanna senza requie, che può essere solo accettata, si colloca un'idea più selvaggia e carnale, ma anche più pura e genuinamente hollywoddiana di come dovrebbero andare le cose. Era la storia del protagonista del romanzo di Jay McInerney, Jamie Conway, che è interpretato nel 1988 da Michael J. Fox (la sceneggiatura rimane sempre quella di McInerney) di Bright Lights, Big City (da noi Le mille luci di New York), e che ruota tutta attorno a una serie di domande: come ho fatto a finire in questa situazione? Come farò a tirarmene fuori? Ovviamente la situazione, la dipendenza, la perdizione sono tutte contenute all'inizio e già portano il seme dello sviluppo narrativo possibile: redenzione o condanna.

Se Jamie si perderà o si salverà è già deciso nei piccoli dettagli, nelle frasi che vengono usate per costruire l'incipit del film. Essere "il tipo che si sveglia presto la mattina, alle sei e mezza, e compra il pane fresco appena sfornato per sua moglie" è l'ancora di salvezza alla quale Jamie si legerà per ritrovare la strada di casa. Una casa radicalmente cambiata, perché con la moglie non si rimetterà più insieme (ma non era una donna per lui, nonostante fosse Phoebe Cates, che insomma, ma vabbè, licenza poetica), con l'amico Kiefer Sutherland, che anche lui non va bene, e alla fine si scopre che la sostanza non si trova fuori ma dentro di sé. Per ritrovarsi serve una dose di egoismo, bisogna rimettere se stessi al centro e riequilibrarsi. Avvicinarsi a chi ha troppe dipendenze sbilancia, collaborare per aiutare non funziona, anzi fa precipitare nello stesso abisso di chi si voleva salvare.

La storia di Jamie è la storia di un uomo che cerca di tirarsi insieme nella parte più bassa di un impero, rappresentato da una New York in cui tutti i tassisti lo mandano bellamente a quel paese (ma lui non ha mai i soldi per pagarli) e in cui la storia di una ragazza in coma (che si sveglierà alla fine del film, ve l'avevo detto che facevo spoiling duro) lo ossessiona come simbolo di uno stato d'animo dal quale non riesce ad emergere. La cocaina è la malattia del tempo (ma sarebbe stato l'Aids in quegli anni) e la morte della madre un anno prima il grande blocco emozionale che Jaime non riesce a superare.

La sua è una strada di vera redenzione perché riesce a riportarlo al punto di partenza, offrendogli una genuina seconda volta. Molte cose sono cambiate, ma può ritornare a New York, può ricominciare a imparare, un passetto alla volta, mangiando il pane fresco barattato con i suoi Ray-Ban tartarugati pre-Luxottica e scegliendo questa volta una vita diversa, una strada differente. In definitiva, come uno dei primi videogiochi da bar, bastava pagare il prezzo di una nuova partita per avere una seconda vita.

Dipendenze, indotte o derivate, che impediscono e delimitano. L'America ha bisogno di normalità e di aiuto. Tanto aiuto.

3.2.13

2.2.13

Il senso dell'oriolo

URWERK È UNA di quelle maison che puoi solo amarle o odiarle. Il tipo di lavoro e design che fanno è volutamente estremo, perché giustifica una scelta molto costosa (non volete sapere quanto costano i duecento orologi che producono all'anno) che diventa quasi identitaria.

A me piace scorazzare in questo mondo degli orologi, vederne le storie, i modelli, il senso. L'Italia, che ha anche a non volerlo (e soprattutto a non volerlo comprendere nei suoi significati) un gusto particolare per il design, fa degli orologi una questione di moda, design e, al massimo, di tecnologia (anche se troppo poco). In realtà, c'è dietro un aspetto imprenditoriale e di creatività che varrebbe la pena approfondire. Qui parliamo di realtà piccole ad alto valore aggiunto, che si sono costruite in modo di fare di ogni caratteristica organizzativa e individuale una virtù.

Siamo alla seconda azienda che esplicitamente mi racconta di essere un'azienda sparpagliata, divisa, potenziata dalla distanza, dai panorami, dall'ambiente, dalla flessibilità. Pensateci. Soprattutto quando la mattina andate in qualche casermone di ufficio, vi arrabattate come piccoli imprenditori sognando di costruire il casermone oppure siete flessibili con il miraggio del casermone come unica fine possibile. Pensateci e chiedetevi cosa volete voi, non cosa dovete fare.