3.5.10

Se hai bisogno, chiama (2000), Il mestiere di scrivere (2008)

SE NELLE PINACOTECHE bisognerebbe entrare a stomaco vuoto, per meglio partecipare la sofferenza dell'artista, allora i racconti di Raymond Carver andrebbero letti in sala d'aspetto di un ospedale, reparto malati terminali.

L'uomo, che è anche un monumento della letteratura americana contemporanea, pone un problema al lettore/blogger: poiché su di lui si sono cimentati alcuni fra i più grandi critici del secolo, che senso ha dare la propria, personalissima (e limitata) lettura?

Non lo so. Così come non so dove sia la miseria e la grandezza di Carver. Lo leggi e ti perdi nelle sue parole: i racconti partono sparati, vanno in una direzione precisa e ineluttabile, mossi da una corrente profonda, invisibile ma palpabile. Peccato che non si sappia quale sia, peccato che non ci sia una morale esplicita, peccato soprattutto che non ci sia una closure, quella sensazione di completezza alla quale la letteratura consolatoria e pseudo-televisiva di cui siamo costretti sempre più a cibarci ci ha abituato.

I cinque racconti inediti pubblicati da Minimun Fax in Se hai bisogno, chiama, sono lucidi, sottili, affilati. Brevi e te li porti dietro a lungo, dopo averli letti. La stessa cosa non accade con Il mestiere di scrivere, pubblicato da Einaudi, che ha invece una densità differente, un intento differente (entrambi sono stati assemblati dopo la scomparsa di Carver), un risultato sempre differente. È in qualche modo una lettura atea e femminile, comunista, dura e priva di speranza.

In realtà, tutta l'opera di Carver è impastata di vita, di materialità dei sentimenti e degli stati d'animo, di ineluttabilità dell'esistenza e della sua conclusione. È illuminata a giorno, schiacciata dalla potenza di una natura diventata invisibile e al tempo stesso onnipresente, costruita attorno a quella concretezza che è la traspirazione della vita di Carver stesso. Infatti, è una lettura difficile, nonostante la scorrevolezza, la facilità e l'apparente mancanza di un motivo e un senso compiuto. Amore, alcolismo, abbandono, sofferenza, incapacità di esprimersi.

Onirico, costantemente in bilico tra il simbolico e il realismo estremo, Carver è stato per gli anni Settanta e Ottanta quello che Hemingway è stato per gli anni Venti. Tuttavia, limitarsi a etichettarlo come un minimalista è non solo sbagliato ma anche ingeneroso. Nel risvolto di copertina di Di che cosa parliamo quando parliamo d'amore, viene citata la critica pubblicata da The Nation all'uscita del libro: "Duecento anni fa Wordsworth e Coleridge diedero inizio a una rivoluzione quando proclamarono di voler scrivere con "la lingua veramente usata dagli uomini". Ma nessuno dei due ci riuscì fino in fondo. In questi racconti, Raymond Carver ci è riuscito. In una maniera impressionante".

Il mondo di Carver è fatto di persone reali, straziate dal dolore quotidiano in cui le sigarette e i tumori, l'alcolismo e i tradimenti, convivono con i pranzi e la pesca della trota bruna, insieme alle altre mille cose che fanno la vita: una giornata di pioggia, mezz'ora di pigrizia in attesa di cena, una sigaretta fumata sul patio dopo aver fatto la doccia. Forse è stato in parte tratteggiato anche da Gordon Lish, il suo primo editor che prepotentemente tagliava e rimodellava la prosa di Carver sino a renderla minimale e monca. Chi può dire. È un mondo che esiste, confitto dietro le nostre menti come una lunga spina alla base del collo. Inamovibile perché tutti temiamo che senza Carver non potremmo più vivere.

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