27.12.08

Pensierino natalizio: sono sessant'anni che non facciamo guerre

CON L'INELUTTABILITA' DI un cronografo a pila atomica, Natale è arrivato e se n'è andato. Adesso è quasi la volta del capodanno, poi ci si tuffa nel successivo 2009. Uno spasso. Ieri sera, reduce dalla due giorni di pranzi e dintorni, guardavo la televisione. C'era l'improbabile film di Nicole Kidman, Jude Law e Renée Zellweger (tra gli altri), cioè Cold Mountain. Non l'ho visto tutto (solo la prima e l'ultima mezz'ora). Al principio c'è la Battaglia del cratere (30 luglio 1864), una delle più sanguinolente (e vividamente rappresentate dal film) carneficine della guerra civile americana. All'improvviso ho avuto una illuminazione.

Quest'anno, come nel 2007 e nel 2006, c'è stato un crescente dibattito sul tema dei giovani e del ricambio bloccato. È un tema antico, da queste parti, e all'estero viene affrontato in vari modi. Parliamo adesso solo dell'Italia, però. L'idea è che i sessantenni e i settantenni (ma, pare, anche i cinquantenni) si sono inzeccati ben bene nei gangli della vita pubblica e del lavoro, e non intendono mollare il colpo. La durata della vita media aumenta, la pressione demografica dal basso cresce ma non trova sfogo. Non ci sono abbastanza posti di lavoro e abbastanza cariche per tutti.

Quest'anno si è ragionato, soprattutto per i noti fatti dei Ds, soprattutto dal punto di vista del ricambio politico, ma la cosa era stata affrontata anche dal punto di vista del lavoro e della vita più in generale. Per dire: i miei, che orbitano nella fascia dei settanta, hanno scoperto negli ultimi anni prima il computer e poi il computer portatile e adesso anche l'Adsl senza fili: fa un po' impressione vederli smanettare sui portatili, ascoltarsi la musica, girarsi le presentazioni natalizie in PowerPoint con tanto di musichetta. Segno dei tempi che cambiano.

Perché dicevo che quell'orrido polpettone di Cold Mountain (fumettone romantico-guerresco per soddisfare i palati femminili e maschili al cinema, massimizzando gli incassi a scapito di qualsiasi possibile pretesa artistica) mi ha fatto avere l'illuminazione? Il ragionamento è sulle generazioni, è molto semplice e in realtà già sfruttato e descritto in passato da menti più brillanti della mia (ma in questa fase di riflusso in cui sembra che nessuno sia andato oltre la terza elementare, parrà di sicuro originale). Il punto è che sono sessant'anni che non facciamo guerre.

Per fortuna, verrebbe da dire. Però c'è una piccola controindicazione. Le guerre sono come i salassi per l'organismo sociale. Allentano la pressione delle corti demografiche. È tragico (e cinico) osservarlo, ma ripuliscono il sangue del Paese da centinaia di migliaia, talvolta milioni di globuli rossi e bianchi, cioè individui. Finita la guerra, ci si ritrova in prevalenza solo con i vecchi e i bambini. I vecchi durano poco, i bambini crescono e si trovano subito sommersi di responsabilità e quindi di opportunità che altrimenti non avrebbero. Dopo una guerra, c'è chi deve mantenere una famiglia a quattordici anni, c'è chi s'inventa un mestiere o costruisce un'azienda, c'è chi viene subito assunto e trova spazio nel suo settore.

Invece, noi italiani non facciamo guerre da sessant'anni dopo 150 anni di sfaceli. La popolazione cresce da allora in modo "naturale", anzi aiutato da una medicina sempre più sofisticata. Anche la vita s'allunga e il problema è anche il grano (come diceva Malthus). Il risultato infatti è che crescono le pressioni interne della società.

Capiamoci bene: non chiedo una guerra che dia una spazzolata alla nostra gioventù debosciata. Ma probabilmente sarebbe stato meglio se avessimo lavorato con una certa attenzione a questa tendenza. Perché anche l'altro meccanismo di regolazione delle società (quello per il quale quando calano le guerre e aumenta il benessere automaticamente si figlia meno e quindi la società invecchia ancora di più e più rapidamente) non basta.

Ecco, questo è il mio pensierino natalizio. Così imparano a mettere in onda certi film, durante le feste.

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