31.3.05

Lost and Found

LA COSA BELLA del mio lavoro è avere la notizia e non scriverla. Un piacere quasi cinese, una forma di astinenza autoindotta dai risvolti particolari. Prendiamo Lost, per esempio. Il popolare telefilm Usa, quella specie di avventura costruita sull'impianto concettuale di un reality show (perché sono i reality ad essere costruiti sull'impianto concettuale dei racconti di avventura, e il cerchio si chiude) sta diventando popolare anche da noi. Hanno iniziato a trasmetterlo e si è cominciato a scriverne. So what? Lo sto seguendo da un po' (adesso negli Usa navigano verso la ventesima puntata) e quindi avrei potuto, ma non ho scritto. Soddisfazioni personali, ma adesso ne parliamo...



Lost è ben costruito, ben scritto e da un punto di vista visivo ha dei colori stupendi. Ha anche il coraggio di proiettare in una dimensione avventurosa (48 tizi sopravvivono a un disastro aereo di un volo tra Sydney e Los Angeles, finendo su di una misteriosa isola parecchio fuori rotta e quindi persi senza possibilità di scampo) il pubblico televisivo sempre più abituato invece a una televisione poco narrata e molto parlata. Regala bei momenti di tensione, è costruito come un furbo meccanismo per generare interpretazioni (una lunga catena di avvenimenti grandi e piccoli che sono inspiegabili, forse magici) che avvince quasi più della trama e delle caratterizzazioni dei personaggi. Tra questi ultimi stanno, comunque, i principali limiti.

Lost si fa guardare, insomma, anche se - come Desperate Housewives - ha bisogno del clamore e dell'enfasi di tonnellate di articoli di giornale con lo stesso titolo (Ecco il fenomeno Lost, oppure L'America impazza per le casalinge di Wisteria Lane) altrimenti non si crea l'attesa settimanale per il nuovo episodio, il media event rituale. Adesso credo stia passando su Sky, a pagamento e con imprecisioni nella traduzione dei dialoghi. Se non avete Sky, non abbonatevi per questo, ma se l'avete e non vi costa niente, un occhio buttatecelo. Le prime dodici puntate reggono il tiro, direi che si potrebbero quasi vedere tutte d'un fiato in una notte. Sulle altre, ancora non mi pronuncio.



I limiti son presto detti: i personaggi sono costruiti come fantocci dello sceneggiatore. Le psicologie sono gommose, costruite in funzione di quel che deve succedere. E cambiano. Come le storie personali, che peraltro sono fin troppo esposte: dopo un po' non se ne può più di flashback su cosa facevano prima, nel mondo civile, soprattutto perché dovrebbero essere i loro ricordi e pensieri ma vengono proposti in situazioni in cui uno non ricorda e non pensa, come quando si corre a perdifiato per sfuggire un pericolo imminente. E poi, parliamoci chiaro, Kate (Evangeline Lilly, la prigioniera) è molto carina ma antipatica (e non dovrebbe esserlo) mentre Jack (Matthew Fox, il dottore) dà il meglio solo quando deve fare la faccia stupita. Un bel fisico, ma non regge il paragone con Sayid (Naveen Andrews, l'ex ufficiale iracheno), il vero figo della situazione. Gli altri sono minori, le cui storie oscillano tra l'improbabile e l'impossibile. Se una dozzina di passeggeri a caso su di un volo di linea intercontinentale hanno tali background e scheletri nell'armadio, la prossima volta prendo la nave...

Gli altri difetti in ordine sparso: qualcuno mi spieghi il senso di quella poveraccia che annega sullo sfondo, a un certo punto della quarta o quinta puntata, e poi nessuno se ne frega più. E perché c'è così poca "coralità". I personaggi sono oggettivamente parecchi, però i rimanenti 32 o giù di lì proprio non se li fila nessuno. Non ci sono poi possibilità che una quarantina di persone, pur aspettando i soccorsi, siano così totalmente egocentriche e asociali, soprattutto dopo un disastro aereo: la gente si avvicina durante le emergenze e le tragedie, non si isola.

E infine, un'altra cosa: fantastico l'Island Open, la partitella a golf ricreativo-culturale messa in piedi per tirare su il morale del gruppo. Cose da fantascienza per soggettisti e sceneggiatori italiani. Ma questa è un'altra storia...

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